Tra Cina ed Usa lo scontro si sposta dai dazi commerciali al riciclo dei rifiuti.
Dal 1 gennaio 2018 sono entrate in vigore nuove norme ambientali, stabilite da Pechino, che introducono regole più severe sugli standard dei rifiuti riciclabili che verranno d’ora in poi importati in Cina. Proibite sono diventate le plastiche post-consumo, il PET delle bottiglie, i sacchetti, il PVC delle bottiglie di shampoo e detersivi, o per gli imballaggi alimentari, il PS delle posate usa e getta. Nella lista c’è anche una tipologia di carta da macero, quella “non selezionata”, i rifiuti misti e appiccicosi, coi resti di cibo, per intenderci. Dal 31 dicembre 2018, poi, non potranno più entrare in Cina ulteriori 16 tipi di rifiuti, tra i quali le carcasse di auto compresse e i pezzi di navi demolite. Infine, a partire dal 31 dicembre 2019, il bando interesserà anche altre 16 tipologie, fra le quali i rottami di acciaio inossidabile. Nel 2016, per dare un’idea della questione qui approfondita, sono stati 203,6 i milioni di tonnellate di rifiuti smaltiti in Cina (di cui 7,3 milioni di rifiuti plastici, pari al 70% dei rifiuti plastici raccolti e selezionati al mondo). Numeri impressionanti che, data la mancanza di un’efficace sistema di supervisione e monitoraggio nel Paese asiatico, hanno determinato enormi problemi ambientali al territorio e di salute ai suoi abitanti. La decisione cinese ora, oltre a spiazzare il mondo, mette in crisi il sistema di gestione dei rifiuti come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi e l’intera industria del riciclo a livello globale, per non parlare dell’impatto che avrà sul prezzo delle materie prime seconde e, quindi, sulla convenienza economica delle attività di recupero esistenti.
La questione ambientale è ormai riconosciuta come una delle minacce, se non la più grave, allo sviluppo e alla stabilità, sia economica sia sociale, della Cina. Tutto può essere ricondotto alla svolta ecologica del presidente cinese che, a luglio 2017, ha lanciato il suo editto contro la «yang laji», la «spazzatura straniera» (un mercato stimato nel 2016 in 17 miliardi di dollari soprattutto grazie ai rifiuti di Europa e Usa). La cosiddetta “National Sword policy” ha così bloccato l’importazione di diverse tipologie di rifiuti riciclabili, per un business che ha permesso a decine di migliaia di cinesi di arricchirsi, ma che ha contribuito notevolmente al degrado ambientale vissuto oggi dal paese. Nella lettera con cui Pechino ha notificato al WTO tale decisione, Xi Jinping ha lamentato che il materiale riciclabile ricevuto e proveniente dall’estero non era stato pulito o era stato mescolato con materiali non riciclabili. Secondo il ministero della protezione dell’ambiente, la restrizione di queste importazioni proteggerà l’ambiente e migliorerà la salute pubblica in Cina. L’obiettivo del divieto è ufficialmente quello di proteggere l’ambiente «dai rifiuti sporchi o contenenti sostanze pericolose» che spesso arrivano ai porti cinesi: non verrà accettato in futuro nei materiali un contenuto di scarto superiore allo 0,03%. Proprio questa della qualità, che in pratica si legge contaminazione, inquinamento, importazione di veri e propri rifiuti in dumping, anziché di materie prime secondarie, è una delle ragioni che hanno portato a questo bando. Una. Non l’unica.
La guerra commerciale tra Washington e Pechino, oltre i dazi commerciali imposti dall’amministrazione Trump, si sta ora spostando proprio sul tema dei rifiuti: la Cina oggi non intende più essere la “pattumiera” della potenza rivale. Prima dello storico annuncio, infatti, la Cina acquistava il 50% dei rifiuti riciclabili degli Stati Uniti (e dell'Europa), pari a 16,2 milioni di tonnellate di carte e plastiche. Secondo una ricerca pubblicata il mese scorso su “Science Advances” dal 1992 ad oggi il 72% dei rifiuti di plastica sono finiti a Hong Kong e in Cina, dove sono stati ripuliti, macinati e ritrasformati in materie prime utilizzate dalle industrie locali. Lo stop della potenza asiatica sta ora costringendo le discariche statunitensi ad assumere lavoratori incaricati di ripulire manualmente e differenziare con maggiore cura i rifiuti, operazione che prima veniva affidata a soli macchinari automatici. Alla fine del processo carta, cartone e plastica vengono compattati in immensi cubi che prima gli Stati Uniti vendevano alla Cina, mentre ora sono loro a dover pagare paesi terzi per liberarsi di quei rifiuti ingombranti ed inquinanti. Le nuove norme saranno applicate anche su cartone e metallo e gli ispettori cinesi hanno stabilito un tasso di contaminazione dei rifiuti dell’0,5%, che gli Usa non riusciranno mai a rispettare. L’America non era sicuramente pronta per questo cambiamento epocale, sarà costretta ora a modificare i suoi consumi e anche le pratiche dei suoi cittadini che, forse fino ad oggi, hanno vissuto il problema ambientale dei rifiuti con una concezione diversa. La Cina ha dato troppo poco tempo al settore, ossia solo sei mesi, per adattarsi alle nuove norme e intanto gli altri paesi importatori, quali Indonesia, Vietnam e India, non sono ancora in grado di assorbire le decine di milioni di tonnellate di cui la Cina ormai non si fa più carico. Semplicemente nessun paese ha la capacità oggi di recuperare quello che recuperava la Cina. Il mercato dei prodotti rigenerati, poi, è troppo piccolo rispetto all’offerta smisurata di materiali da riciclare. Così la rigenerazione rallenta e i magazzini si intasano di materiali da riciclare che non trovano sbocchi di mercato. E così dei milioni di tonnellate di rifiuti o materiali che resteranno entro i confini americani (e in generale di tutti i paesi sviluppati dove le attività di recupero/riciclo hanno dato vita ad un comparto florido) adesso cosa ce ne faremo?
Se la chiusura da parte della Cina risulta essere un problema di non facile soluzione, esiste certamente anche un rovescio della medaglia. Invece di trovare nuovi posti dove spedire la spazzatura ora governi e industria dovrebbero trovare un modo più semplice per ridurne la quantità. Dopo la nuova legge cinese, l’UE ha deciso di puntare maggiormente sulla modernizzazione degli impianti di produzione e sullo smaltimento di plastiche, con un investimento di 350 milioni di euro in ricerca, e con l’obiettivo di recuperare il 55% entro il 2030. Un’ulteriore soluzione potrebbe essere quella di ridurre la produzione di rifiuti riciclabili puntando su tasse che frenino i consumi di imballaggi. In Italia, ad esempio, i consumatori pagano su tutte le merci imballate il contributo Conai che finanzia la raccolta differenziata ed il riciclo, il peso del contributo è correlato con la riciclabilità del materiale. L’efficacia del sistema italiano Conai è tale che l’Italia è uno dei Paesi che hanno i costi più efficienti di raccolta e riciclo. Azioni, poi, come l’introduzione italiana dei sacchetti biodegradabili, o la messa al bando francese delle plastiche usa e getta, sono solo il primo passo verso questo traguardo. Una delle partite, forse la più importante, la si sta giocando nei programmi per la ricerca e sviluppo di nuovi materiali biodegradabili e compostabili capaci di replicare le caratteristiche di versatilità e resistenza della plastica. Questo blocco diventa così un’opportunità unica per l’intero sistema industriale per rivedere e ripianificare il mercato, quello degli imballaggi in plastica in primis, e per incentivare il nostro sistema di riciclaggio rendendolo più efficiente e conveniente.